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Adesso mangio scatolato anche dentro casa (+7 giorni dopo il decreto #iorestoacasa)

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I miei pochi, residuali imbarazzi nei confronti della cucina industriale si stanno sciogliendo come neve al sole, più veloci dei poli.
sgombro e cipolla
Filetti di sgombro in scatola, cipolla e pane: un'evergreen nazional-popolare che
non tradisce mai, nemmeno nei giorni convulsi del Coronavirus.
Succede che le scatolette, verso cui in realtà provo da sempre una segreta e insana attrazione, vengono sempre più rapidamente sdoganate, senza pensarci su tanto. 
E' semplicemente uno fra i tanti non previsti effetti collaterali messi in modo dalla emergenza Coronavirus.
👉In questi giorni difficili l'idea stessa di scatoletta o barattolo non viene più confinata alle sole gite in montagna e ai malcerti tavolini dei bivacchi.
In queste giornate di parossismo mediatico mi appoggio con composta riconoscenza, a quei barattoli di sgombro e di tonno tanto aborriti dalla spocchia dei bambocci foodly-correct, costretti ormai solo nei social, visto che i localini sui Navigli della Milano da bere sono ormai off-limits.
zimnica
Non solo barattoli industriali ma anche vasetti km-zero. Le massaie d'un tempo sapevano bene che preparare una scorta per le settimane magre del lungo inverno non era solo strategico, ma anche consolante.

Più schizzati di così...

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Lo archivio sotto l'etichetta "flashback", pro futuro. Perchè più avanti sarà interessante riconsiderare con sguardo retrospettivo questa "fenomenologia trentina".
Dal quotidiano on-line "Il Dolomiti".

Il furbetto del sentierino (questo aveva le pelli di foca e il bollino in tasca)

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Nemmeno la certificazione di Guida Alpina è in grado di garantire che il mondo della montagna sia immune da coglioneria e qualunquismo.
Anche questa è da archiviare e rileggere più avanti, quanto l'emergenza Coronavirus sarà alle spalle e finalmente si potrà riflettere con più calma su questa "fenomenologia trentina" (screen-shot dal quotidiano on-line "Il Dolomiti"). Il coglione ha evaso le disposizioni del Consiglio dei Ministri e il personale sanitario dell'elisoccorso ha dovuto raggiungerlo sulla neve indossando tute e mascherine.

Il "Rifugio Capanna Cervino" a Passo Rolle

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La Capanna Cervino nacque negli anni Trenta su impulso di Alfredo Paluselli, un pioniere del turismo locale che voleva “la scuola di sci”.
La Capanna Cervino negli anni Trenta. Il nome fu scelto in onore del Cimon della
Pala, soprannominato il “Cervino delle Dolomiti”.
Guida Alpina e conoscitore delle Dolomiti, Alfredo Paluselli individuò il luogo dove mettere in piedi la sua scuola, la prima nelle Dolomiti, e predispose nel suo laboratorio da falegname di Ziano di Fiemme i pezzi che avrebbero dato vita alla Capanna Cervino.
Era un tipo innovativo anche nella tecnica costruttiva della sua "capanna", che divenne uno dei primi esempi di edificio prefabbricato.
Alfredo Paluselli ideò e realizzò nel 1931 la Capanna Cervino.
👉Iniziò ad offrire ai suoi ospiti i primi "pacchetti vacanze" comprensivi di lezione di sci, vitto ed alloggio, trasporto da Paneveggio a Passo Rolle con vetture private istituendo una sorta di servizio navetta, dopo aver progettato e realizzato due piste da sci che da Passo Rolle attraverso la foresta dei violini, arrivavano a Paneveggio dove potevano riposare presso l'albergo preso in gestione dallo stesso Alfredo, per poi risalire a Passo Rolle.
I clienti soprattutto stranieri (tedeschi ed inglesi) erano sempre di più.
👉Arrivarono poi gli anni della guerra e del dopoguerra dove il turismo era solo un lontano ricordo.
capanna cervino
Nel 1946, dopo la guerra, Alfredo Paluselli fu costretto a vendere la Capanna Cervino al Sig. Dagostin di Cavalese, un commerciante di legname che la diede in gestione al fratello di Alfredo, Giovanni Pauselli il quale riuscì nel tempo a riscattarne la proprietà ed a gestirla fino agli anni '90. Nel 1996 la Capanna Cervino è stata acquistata dalla famiglia Mich di Predazzo. (testo e foto in bianco-nero dal sito della Capanna Cervino). Si trova poco sotto la più nota Baita Segantini.

A proposito: potremmo farci il pemmican a casa?

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Per l'uomo bianco la storia del Pemmican comincia quando viene adottato dai trappers, i commercianti di pellicce canadesi, e prosegue con i grandi esploratori dei poli come Roald Amundsen (primo a raggiungere il polo Sud nel 1912) e Robert Falcon Scott (che invece perse la vita nella stessa corsa verso l’Antartide, nel 1912).
pemmican
Il pemmican dei nativi, se ben preparato, può conservarsi per decenni.
Le antiche popolazioni del Nord America preparavano questa riserva alimentare altamente nutritiva, zeppa di di grassi e proteine. Nella lingua dei nativi Cree pimîhkân indica qualcosa che deriva da grasso (pimi). 
👉Utilizzavano le parti magre di daino, bisonte, cervo o alce, in seguito anche di bovini d'allevamento. Le essiccavano al sole e al vento e poi le riducevano in poltiglia e, mescolate con grasso sciolto, le pressavano in gallette, che poi essiccavano. L'aggiunta di piccoli frutti, tipo mirtilli, ciliege e vari tipi di bacche commestibili (saskatoon) garantiva l'apporto vitaminico.
pemmican
Gli uomini di Scott impegnati nell'apertura delle scatole di pemmican, nella loro capanna-bivacco in Antartide. Già nel 1793 l’esploratore britannico Alexander Mackenzie aveva usato il pemmican per la sua traversata via terra dal Canada al Pacifico. Venne inoltre utilizzato dalle truppe britanniche durante la seconda guerra Anglo-Boera tra il 1899 e il 1902; ogni soldato veniva dotato di 4 once di Pemmican e altre 4 di zucchero e cioccolato da usare in caso di emergenza.
Possiamo davvero pensare di farcelo da soli?
In rete si trovano anche delle formule per autoprodurre un pemmican casalingo:
- grasso di bue 33 %
- polvere di latte intero 20 %
- pancetta secca affumicata 17 %
- carne di bue liofilizzata 10 r%
- piselli liofilizzati 8 %
- concentrato di pomodoro 5 %
- farina integrale 2 %
- patate disidratate (tipo purea) 2 '%
- lievito di birra 1 %
- pepe nero 1 %
- sale 0,5'%
- semi di comino 0,5%
👉Questo pemmican può essere consumato crudo, cotto come uno stufato o anche fritto. Diversamente dal più noto pemmican dei pellirossa, il meno noto pemmican degli Innuit, l’akutaq, prevedeva anche l’utilizzo di proteine e grasso provenienti da pesci o mammiferi marini come trichechi e foche, con l’aggiunta di bacche e dei pochi vegetali che la tundra mette a disposizione. Infine, la variante siberiana chiamata tolkusha, invece, prende le sue proteine dal pesce e i grassi dalla foca o dalla renna.

Bivacco Baito Cece e Lago di Cece (Lagorai)

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Per le prime uscite del dopo-Coronavirus sarà bene scegliere qualche posto poco affollato. I Lagorai sono proprio adatti a questi progetti.
Il Baito Cece è a 1.880 metri di quota. Foto, note e relazione dell'escursione sono
di Gigi, che c'è stato nel luglio 2019, dopo la Vaia e prima del Cornavirus.
E sarà necessario fare anche un po' di rodaggio, percorsi brevi, poco ripidi, senza difficoltà tecniche. Magari con qualche bel punto di appoggio. Insomma, proprio come questo qui.

Gruppo: Lagorài
Zona: Valmaggiore – C. Cece
Percorso: strada forestale di circa 5 km, essendo per ora inagibile il sent. SAT n° 336
Difficoltà: T

Dislivello:± 310 m
Tempi: ore 3:40

Quote:
Ponte di Valmaggiore m 1.570
Baito della Sandrina m 1.650
Fine sterrata m 1.847
Baito di Cece m 1.880
Lago di Cece m 1.879
Si parte e si arriva dal Ponte di Valmaggiore, raggiungibile in auto da Predazzo (transitando davanti al ristorante "Miola" della Betta. Foto e testi sono del mio amico Gigi, che c'è stato l'estate scorsa. Le foto sono in Google Foto.

Note di Gigi:
Il sentiero 336(e non è certo l’unico) che porta al Lago di Cece è attualmente chiuso (Luglio 2019), per i noti e calamitosi accadimenti dell’ottobre 2018 (Tempesta Vaia). È necessario quindi usare la sterrata allungando un poco i tempi. Vi suggerisco di prenderla con calma, infatti, un tempo la strada correva per quasi tutta la sua lunghezza nel fitto bosco, mentre adesso squarci enormi lasciano spazio ai panorami. Magra consolazione per i danni inferti al territorio, alla flora e alla fauna; al bosco servirà ben più di mezzo secolo per cicatrizzare le sue ferite, purtroppo.

Un manifesto appeso nel Baito racconta la storia della costruzione dello stesso, riportando anche le foto del gruppo di amici che si occuparono dei lavori iniziali.
👉Storia del Bait de Ses – Baita di Cece
“Parte tutto da una valanga, si da una valanga che nell’inverno 1974/75 scarica a valle sul lago, una montagna di neve, alberi e quant’altro. Un gruppo di amici decide allora, senza chiedere permesso o altro, di costruire una baita recuperando una piccola parte dei tronchi caduti.
Il luogo è scelto,in quanto esiste sul posto un manufatto in cemento 8partenza teleferica della prima guerra mondiale) che costituirà la futura “foghera” o fogolar.
La magnifica Comunità di Fiemme proprietaria del Terreno, davanti ormai all’evidenza conce. Un paio d’anni più tardi, anche il materiale per il tetto ed un vero focolare. La Baita viene così terminata e goduta da tutti i passanti.
Nel 2004 la M.C.G.F. decide (senza chiedere il permesso al gruppo di amici … ) che la piccola Baita deve essere ingrandita e ammodernata, come la vedete adesso. È comunque merito di tutti loro se in questo luogo … PIOVOSO! Si può godere di un manufatto così bello e accogliente”.

Relazione poco tecnica e molto descrittiva dell'escursione (sempre del 1919, sempre di Gigi):
Tornato da un’escursione nel Latemàr e sceso a Predazzo (anche qui caldo e afoso; figurarsi a Trento) faccio una piccola spesa e salgo in Valmaggiore. La Valmaggiore, purtroppo, è stata particolarmente colpita dalla tempesta dell’ottobre 2018, le foto scattate ne documentano la triste realtà. Parcheggio l’auto nei pressi del Ponte di Valmaggiore, dove da una fontana sgorga un potente getto d’acqua fredda; il mio istinto da foca coglie l’occasione al volo così prima mi lavo a torso nudo con mio grande sollievo poi sciacquo a più riprese un paio di maglie da montagne sudatissime e quindi dall’odore non proprio profumato. La cosa, chissà poi perché, desta sguardi di riprovazione da parte di alcuni turisti di passaggio e un sorrisetto ironico da parte mia che ho notato l’abbondante sudore sulle loro fronti !
👉Finiti i lavacri, mangio un boccone e scambio quattro chiacchiere con una giovane e avvenente forestale provinciale che, con un suo collega, stanno armeggiando intorno ad un albero (ancora in piedi), proprio nei pressi dell’inizio el sentiero per il Lago di Cece. Come temevo la giovane mi conferma che il sentiero è impraticabile, mi dice anche che un forestale l’ha percorso fino a un certo punto ma con gran fatica, perché intralciato dagli alberi caduti che, in pratica, hanno cancellato il sentiero stesso.
👉Non ho alcuna intenzione di trasformare una breve escursione in una mezza giornata di pesante lavoro, quindi mi carico lo zaino in spalla e salgo lungo la comoda sterrata (circa 5 Km di lunghezza) che, con ampio giro, mi conduce alla meta. Prima della tempesta Vaia questo percorso correva sempre nel fitto bosco regalando al passante ben poche occasioni d’intravedere qualche scorcio di panorama. Oggi la situazione è completamente diversa: squarci enormi nel bosco regalano panorami a partire dal Gruppo del Latemàr per arrivare alle Pale di S. Martino. Ciò se per il turista può essere un dato positivo, per il territorio rappresenta un danno enorme del patrimonio del bosco che avrà ripercussioni negative per molto tempo.
👉Arrivato alla fine della sterrata, salgo con un bel sentiero, tagliando alcuni tratti sotto la minaccia del temporale che già da un po’ ha cominciato a manifestarsi con tuoni e fulmini in rapido avvicinamento. Raggiungo il Lago e il Baito di Cece, appena in tempo per evitarmi una botta d’acqua. Nel baito trovo altre persone che hanno cercato riparo: una coppia dall’inconfondibile accenti ligure, Un tipo gioviale con il quale scambio qualche parola, una famigliola composta di madre ansiosa, un padre dal pacifico e tranquillo occhio di Bue e da due strani bipedi nevrotici che fanno a gara a chi strilla di più a ogni fulmine che, purtroppo per le mie orecchie, sono numerosi. Evidentemente come recita l’antico detto “la maternità è certa, la paternità invece … “.
Il tempo passa e il maltempo concede ogni tanto delle interruzioni di cui approfittano i turisti per tornare a valle (con mia grande gioia). Nel frattempo è sceso al lago un numeroso gregge di pecore ben tosate, chissà come sono contente sotto l’acqua! Il gregge è accompagnato da un pastore (moderno: grande ombrello e grande cellulare all’orecchio), un ragazzone biondo alto, robusto, simpatico e di poche parole (la signora ligure chiede: “come si chiama il suo cane”, il giovane risponde: “è una cagna”. La signora insiste: “e come si chiama” e il giovane, lapidario, risponde: “cagna”. A guardare la signora mi viene da scompisciarmi e cerco disperatamente di darmi un contegno.
Rimasti soli, il giovane pastore ed io passiamo un bel po’ di tempo seduti a chiacchierare, infine gli chiedo stringendogli la mano di passare al tu e presentarci: “ io mi chiamo Gigi” – “Io mi chiamo Tobia”. Ecco! Uno con un nome così è scritto da qualche parte nell’Universo che fa il Pastore che altro se no!
Tobia mi chiede curioso di me ed io non mi faccio pregare a soddisfare le sue domande, così rimane stupito e vieppiù incuriosito del fatto che ho scelto di vivere in Trentino, che sono solo e deciso a trascorrere la notte al baito. Intanto il tempo passa e lui, da buon professionista, si allontana per sistemare il suo gregge per la notte, tirando un recinto elettrico, sempre accompagnato dalla sua fedele e anonima cagna.
👉Terminate le sue incombenze, passa a salutarmi dicendomi che lui va a casa e tornerà su domattina.
Intanto il temporale è tornato sui propri passi e decide di tenermi sveglio con i fulmini che illuminano a giorno l’interno buio del baito, tuoni che scuotono il mio rifugio con tale violenza che le assi del soppalco che mi ospita vibrano, infine pentole e padelle appese a dei chiodi sopra la stufa si scontrano tra loro improvvisando un concertino per sola batteria (da cucina)!
Finalmente, verso le due del mattino, cala il silenzio e posso dormire tranquillo fino la mattina. Mi alzo e faccio colazione con una lattina di birra poi, con pazienza, aspetto che arrivi il sole a portare luce, calore e a combattere un poco l’umidità. Faccio qualche foto, mentre le pecore, nel loro recinto, danno il via alle pratiche mattutine iniziando a sgranchirsi le zampe; povere bestie si sono beccate una tempestata mica da poco stanotte!
👉Intanto arriva Tobia che, con un sorrisetto sulle labbra, mi dà il buongiorno e mi chiede se ho dormito bene. Naturalmente non mi tiro indietro e rispondo, mentendo spudoratamente: ”Ho dormito tutta notte come un Papa!”, poi gli racconto l’epica notte trascorsa scatenando la sua ilarità. Si cambia le scarpe, indossando un buon paio di scarponi, e va a controllare il gregge,liberandolo dal recinto. Seguiamo per un breve tratto le sue pecore poi ci salutiamo. Tobia si allontana con un ultimo gesto di saluto dicendomi:”Fino a settembre sono al Baito Caserine, vienimi a trovare ciao”, rispondo al saluto pensando tra me e me: “ci puoi contare amico!”
Quando arrivo al Ponte di Valmaggiore già pregusto il sollievo che mi regalerà la fontana con il suo bel getto d’acqua fredda. Invece niente, la fontana è asciutta, non esce nemmeno un filino del prezioso liquido! Evidentemente il temporale della notte ha combinato ancora un’altro disastro. Ma stramaledetto Giove Pluvio non hai altro da fare che complicare la vita a noi poveri e strasudati bipedi, ma te possino …

Verze in padella nei giorni della fioritura, a quasi un mese dal decreto #iorestoacasa

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Le piante si stanno risvegliando come se fosse un anno normale, un po' come avviene a Chernobyl. Siamo solo noi a trovarci in difficoltà.
Fiori di nontiscordardimè, forsizia, susino, pruno giapponese. Per loro nulla è cambiato, i fragili siamo solo noi.
verze in padella
E in cucina oggi verze in padella. Poco olio e mezzo bicchiere d'acqua sul fondo e nient'altro. Solo rimescolare. Sale, se proprio. Più tardi merenda sul tagliere in giardino: pane, salame e formaggio alla maniera classica.


Bivacco Malga del Doss in Val Piana (Val di Sole)

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Facile e breve escursione di mezza montagna in una zona defilata che, soprattutto nei giorni feriali e fuori stagione, probabilmente non sarà
Per questa meta post-Coronavirus ringrazio Umberto di 4passiinvaldisole.blospot.com
dove descrive e documenta questa meta solandra, che si trova  a 1.680 metri di quota
nella Val Piana, la piccola convalle che sfocia ad Ossana.
troppo affollata.
La casera della ex-malga e stata ristrutturata nel rispetto del Vecchio edificio.
Una parte è chiusa ma una porzione è destinata a punto di sosta per gli escursionisti.
Il locale attrezzato ricavato nella vecchia casere e si trova lungo i percorsi seguiti dai cacciatori diretti sulla “Colem del Doss” o dagli escursionisti diretti al Lago di Barco o al Bivacco Stalon de Bon.
👉Una seconda porzione è invece aperta a tutti, come un moderno e confortevolissimo bivacco, un bivacco raggiungibile sì a piedi (solamente un'ora e mezza di comodo cammino da Val Piana) ma pure in automobile naturalmente per chi è provvisto delle indispensabile autorizzazione di transito sulla strada forestale.
👉Per le info sul percorso, adatto a tutti, rimando alla descrizione che ne ha fatto l'ex collega Umberto Zanella nel suo blog solandro, davvero esaustiva e completata da una bella serie di fotografie.






Panino al tonno coi pomodori verdi

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Una semplice michetta della Coop imbottita di tonno in scatola e salsa piccante di pomodori verdi. Camminando in giardino a "pasquetta".
panino tonno pomodori verdi
Michetta della Coop, tonno in scatola della Coop e salsa di pomodori verdi messi
via in barattolo la scorsa estate.
In questi giornate soleggiate e terse di confinamento anti-Coronavirus l'abitudine di preparare panini in vista di una scarpinata in montagna da zaino non viene meno.
E' una consuetudine acquisita con gli anni, ormai incardinata in testa e difficile da mettere da parte.
Solo che ora la giornata finisce lì, la preparazione del panino ormai sostituisce la passeggiata. Va a finire così: lo preparo e poi me lo assaporo passeggiando su e giù per il giardino.
👉Il silenzio di queste giornate senza traffico è per me una gradita novità, il cinquettio degli uccelli sembra più sonoro, sento anche il latrato dei cani più lontani, ogni tanto passa qualche trattore agricolo, ed è tutto.
E' il lunedì di Pasqua, ma senza gite fuori porta e senza "traffico lento ma scorrevole in A22".
Panino tonno e pomodori verdi
Il tonno in scatola non è tutto uguale ma va sempre molto d'accordo con i pernottamenti in bivacco, sia in scatola sia che entri a far parte di qualche "zuppone da bivacco" o di qualche imbottitura di panino, anche diversa da quella di oggi. Oggi il tonno è accompagnato da un piccante condimento a base di pomodori verdi che metto via da anni.

La frenesia e l'aria tersa

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L'alpinismo globalizzato, l'inquinamento, il Coronavirus e poi il lock-down che ripulisce l'aria: tout se tient, come dicono i francesi.
Dal nord-ovest dell’India si vedono di nuovo le cime dell’Himalaya ed è la prima volta dopo 30 anni. Gli abitatati di Sialkot (Punjab) dicono di non aver mai visto così bene prima d’ora le cime del Kashmir, distanti più di 150 chilometri (nella foto). E' quel che accade guardando le Alpi da Venezia (il Cimon della Pala dista circa 100 chilometri) dopo un temporale battente che ha ripulito l'aria.
Come al supermercato: tutti in coda sulla via normale dell'Everest.

Dormire in rifugio: scompariranno le camerate?

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Il rifugio alpino nasce come luogo di condivisione degli spazi, ce lo dicono i nomi stessi: i letti a castello, la camerata, la mensa a pianterreno, un lessico che sa quasi da caserma, completato com'è dal "silenzio" serale e dalla "sveglia" mattutina. Nei rifugi la vita prende...
Solo un esempio: una camerata nel sottotetto del rifugio Becherhaus/Biasi al Bicchiere.
...un altro ritmo e si svolge in spazi collettivi, si mangia, ci si lava e si dorme in spazi collettivi che sono l'opposto dell'isolamento e del distanziamento sociale.
Bisognerà imparare in fretta a tenerne conto, se vogliamo che i nostri amati rifugi non diventino focolai di diffusione del contagio.
👉Almeno fino alla disponibilità di un vaccino, andrà riorganizzato tutto, dai tavoli ai gabinetti, sapendo che i posti letto necessariamente dovranno diminuire.
👉Abbandonare il modello basato sui grandi numeri, ridurre i posti letto, semplificare l'offerta gastronomica e mettere in conto un aumento dei prezzi.
👉Ma i nostri monti valgono più di un after-hour in un pizzeria cittadina e spero proprio che aiuteranno a far quadrare i conti...

Ribelli di confine

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Domani è il 25 aprile. Appuntiamoci questo titolo...
Edito da: Fondazione Museo storico del Trentino Via Torre d'Augusto 41, Trento.
Il titolo completo di questa raccolta di contributi dovuta alla "Fondazione Museo Storico del Trentino"è "Ribelli di confine: la Resistenza in Trentino".
E' una raccolta di contributi su uomini ed episodi della Resistenza trentina, che si svolse nel difficile teatro difficile dell'Alpenvorland, la "zona di operazioni" che dopo l'8 settembre del 43 rispondeva direttamente ad Hitler.
Il libro è esaurito ma é facile trovarlo in prestito in una delle numerose biblioteche pubbliche.
👉 In attesa della riapertura possiamo leggere nel web il libro di uno dei co-autori, Giuseppe Sittoni: "Uomini e fatti del Gherlenda".
👉Se invece abbiamo voglia di una colonna sonora, potrebbe andare bene "La Fabbrica", un vecchio brano degli "Stormy Six" che la prende un po' alla lontana, dagli scioperi operai del marzo 1943, in effetti il primo vero campanello d'allarme per i nazisti e i loro tirapiedi repubblichini...

Più che da omerici abbuffi queste sono giornate da spuntini, micro-merende, piattini freddi...

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Sarebbero solo bazzecole e quisquilie, se misurate col metro delle tanto amate bivaccate ante-Coronavirus.
Tappati in casa col Coronavirus appollaiato sul davanzale della finestra, si mangia poco. Soprattutto spuntini, intermezzi vari, piatti freddi, qualche dolce. Così, aboliti di fatto pranzo e cena, la giornata è scandita dalle piccole cose, con in testa i crostini del riciclo (le rosette della Coop tagliate a fette) e i piatti freddi. Milo e Genova ci guardano incuriositi.

Cima Durmont (Gruppo di Brenta)

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Meta facile, nascosta e dimenticata. Questa cimetta tranquilla del Brenta meridionale assicura un bel panorama ed è poco frequentata.
Vedi le altre foto in Google Foto.
Si raggiunge facilmente ed è candidata per le prime uscite del dopo Coronavirus.
L'inossidabile Gigi c'è già stato nell'estate 2019 e la descrive così:

Gruppo: Dolomiti di Brenta
Sottogruppo: Costiera del Doss Sabbión
Dislivello : + 540 m
Tempo totale: ore 2:40

Quote:
Passo Daone (Prà dell’Asen) m 1295
Loc. “Dotor” m 1395
Loc. “Pramarciù” m 1405
Loc “Stavèl” m 1476
C. Durmónt m 1835

Descrizione dell'itinerario:
Cartina in scala 1:25.000. Partenza e arrivo dalla località Prà dell'Asena, a Passo Daone.
Da Trento si sale verso Tione. Giunti al bivio con Ragoli si raggiunge tale
paese per proseguire fino a Preore. Alla fine del paese troviamo la segnaletica, a destra, che ci indirizza a Montagne e al Passo Daone. La strada va percorsa con attenzione perché in parte stretta e con tornanti dalla visuale in pratica nulla.
👉Arrivati al Passo Daone, troviamo il bar-ristorante Capanna Durmont con a fianco uno slargo per parcheggiare. Proseguendo per un breve tratto troviamo, a destra, le indicazioni per C. Durmónt.
Lasciata destra un’ampia area attrezzata e ha sinistra quel che sembra un hangar, mentre è una cappella, iniziamo a salire con l’asfalto che, dopo breve, abbandoniamo svoltando a destra (segnaletica). Il sentiero largo e comodo ci porta in una ventina di minuti in una radura (loc. “Dotor”) con una splendida baita. Da qui si vedono le Alpi di Ledro di fronte alle quali c'è il M. Cengledino appartenente al grande gruppo dell’Adamello – Presanella.
👉Lasciata la radura, rientriamo nel bosco trovando una ripida strada cementata che ci conduce in breve in Loc. “Pramarciù”. Qui oltre a delle belle baite vediamo sullo sfondo C. Sera, l’ultima cima delle Alpi di Ledro, con il sottostante Passo del Ballino. Ora dobbiamo proseguire con un tratto di strada cementato tratto che, per fortuna, è ben ripido ma non molto lungo. Quando il cemento termina, poco più avanti sulla destra c’è un sentiero che sale ripido nel bosco e può essere utilizzato per evitare di salire fino in loc. Stavèl.
👉Personalmente ho scelto di fare il giro più lungo per vari motivi: primo non sono un frenetico cittadino che deve correre, anche se può farne a meno; secondo nessuno mi corre dietro; terzo non c’è nessun tipo strambo che mi paga se mi ammazzo dalla fatica quindi … chi va piano va lontano e in più si gode la natura; quarto non sapendo in che condizioni fosse la scorciatoia ho preferito seguire la forestale arrivando cosi nella bella loc. “Stavèl”. Si supera una baita a sinistra e si prosegue in salita arrivando a poca distanza da un’altra baita, più piccola ma molto bella. Siamo a 1476 m di quota e la stradina forestale compie una curva destrorsa inerpicandosi lungo un rude pendio “scavato” dai tronchi trascinati verso il basso dai trattori. La tempesta del 2018, purtroppo, ha segnato pesantemente i boschi del Trentino ed anche i sentieri ora, ne risentono. Superato il ripido tratto, arriviamo al bivio, poco visibile, sulla destra con la scorciatoia di cui sopra.
👉Ora continuiamo con un sentiero, ben visibile e sempre ripido che ci porta verso l’alto con qualche raro tratto in piano, pochi metri, utile per riprendere fiato. Infine usciamo dal bosco e proseguiamo l’erta salita che ci porta a una specie di pulpito, sulla cresta Sud di C. Durmónt, dominato da una croce con il libro di vetta, mentre a pochi metri un cartello riporta la scritta C. Durmónt n 1837. Si tratta di una falsità e di un’inesattezza.
La falsità riguarda C. Durmónt che non è dove ci troviamo adesso, bensì più avanti, infatti, la sua cresta Sud, dopo pochi metri, continua a salire proseguendo in direzione del M. Cargadursi. L’inesattezza riguarda la quota, non essendo questa la cima, ovviamente non siamo alla quota di 1837. Forse chi ha messo il cartello non sa che si è in vetta quando, guardandosi intorno non resta che scendere e non salire ancora, altrimenti su che cavolo di Cima siamo? O no!
👉Proseguiamo raggiungendo la vera C. Durmónt che, in pratica, è un tratto, della lunga cresta cha arriva oltre il M. Cargadursi unendosi con l’altra cresta (M. Irón – M. Tof o Tov) che delimita la val Manéz. Io ho continuato ancora e dopo un breve tratto, che mi ha portato in un folto e ombroso ciuffo di faggi, sono risalito tornando pressapoco alla stessa quota guadagnando un buon punto d’osservazione sulla Val Rendena fino a Pinzolo.

Qualche nota:
👉un buon camminatore in circa un’ora, dopo essere sceso al Passo Campiol m 1671, può risalire al M. Cargadursi m 1872. Al ritorno dovrà fare il percorso inverso sempre nello stesso tempo. In questo caso il tempo totale salirà a circa 4/5 ore.
👉Chi volesse strafare dal M. Cargadursi può scendere il Passo delle Malghette m 1726, dove trova il sent 350 con cui percorrere la Val Manéz, raggiungendo la loc. omonima in circa h 1,20. Qui giunto occorre imboccare la forestale che, partendo da m 1215 circa, lo porterà in loc. “Dotor” (superando circa 180/200 m) di dislivello da dove poi scendere al Passo Daone. In totale circa 5,30 ore di buon cammino.
👉Sotto C. Durmónt ho incontrato un paio di escursionisti con i quali ho scambiato due chiacchiere, così ho saputo che la scorciatoia da me evitata era percorribile. Al ritorno quindi ho voluto verificare la cosa, ma infine il tempo risparmiato non è poi gran cosa.
👉Per quanto riguarda le quote c’è un po’ di confusione: sulla falsa C. Durmónt sul cartello c’è scritto 1837; su di un paio di carte Kompass ho trovato le quote 1834 e 1835 (poche idee ma ben confuse), sulla guida dell’indimenticato Achille Gadler 1835, sul Catasto dei sentieri SAT invece 1805, sull’Atlante cartografico del Trentino addirittura 1711! Quando si dice la varietà. Non avendo portato con me l’altimetro non ho potuto verificare di persona per cui mi sono attenuto alla quota riportata dal Gadler che, per quanto ne so, era tipo affidabile.

Patate in padella con tarassaco

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Le patate vanno lessate e ripassate in un soffritto di olio, strutto, cipol-
patate e tarassaco
Patate e foglie di tarassaco passate in padella con lo strutto di maiale, una cosa retrò.
la, carote e sedano. Il tarassaco va lessato e ripassato in padella separatamente.
I due si sfiorano solo nei due-tre minuti finali, appena prima di finire nel piatto.
👉Come fare: mettere un filo d'olio sul fondo della padella e aggiungere un cucchiaio bello colmo di sugna.
Preparare un trito di cipolle, carote, sedano.
👉Le patate, tagliate a pezzettoni e lessate, vanno aggiunge ancora calde e rimescolate per condirle ed evitare che attacchino.
👉Nel frattempo le foglie di tarassaco vanno lavate in abbondante acqua corrente per liberarle dai residui di terra e sbollentate per 8-10 minuti.
Poi, mentre le patate sono già state tolte e impiattate, vanno brevemente ripassate nei resti del soffritto che hanno lasciato le patate.
Una volta nel piatto, patate e tarassaco sono state spruzzate di rosmarino tritato fine e pepe nero.
patate e tarassaco
Preparare il soffritto di cipolla-carote-sedano, lavare e rilavare il tarassaco, bollire le patate e sbollentare, a parte, il tarassaco, passare in padella dapprima le patate e poi, più brevemente, il tarassaco. Il tarassaco, coi suoi fiori gialli e primaverili, è conosciuto anche come "dente di leone" e ben si presta alla preparazione di rustiche insalate crude.

Un giro fra i baiti di Gardonè (Latemar)

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Giro facile e vario, assistito dalla funivia e quindi da fare in una giornata feriale. Inizia e termina alla stazione intermedia della funivia di Passo Feudo, in Val di Fiemme.
Vedi le altre foto in Google Foto.
Dalla località Vardàbe (stazione intermedia della funivia), tocca i baiti Baiti delle Prese, il Bait dei Sügadoi, del Pian de Paura.
Dati e descrizioni sono di Gigi, che ci è stato nel 2019.

Gruppo: Latemàr
Partenza e arrivo: Gardonè (1° Tronco funivia del Passo Feudo)
Difficoltà: E
Dislivello: 710 m

Tempi.
Stazione funivia–Bivio sent. per Vardàbe: h 0.10
Bivio–ardàbe: h 0,15
Vardàbe – Baito delle Prese: h 0,45
Baito delle Prese–Baito de Sügadoi: h 1,40
Cartina in scala 1:25.000 del percorso ad anello. Si lascia l'auto al parcheggio a valle.
Baito de Sügadoi–Bivio Baito Pian della Paura: h 0,30
Bivio–Baito Pian della Paura: h 0,10
Baito Pian della paura–Gardonè: h 0,50
Totale : h 4,30

Quote.
Staz. di arrivo Gardonè: m 1650
Bivio Vardàbè: m 1580
Villaggio Vardàbè: m 1498
Bivio per Gardonè e Valsorda: m 1700
Bivio per Baito delle Prese: m 1750
Baito delle Prese: m 1796
Baito de Sügadoi: m 2196
Quota m 2200 circa
Bivio Passo Feudo – Gardonè: m 2100
Baito Pian della Paura: m 2068

Note.
Dal Bivio di quota 2100 si può saltare la, fin troppo, ripida discesa a Gardonè evitando di scendere al Baito del Pian della Paura e proseguendo verso il Passo Feudo che si raggiunge in circa h 0,45. Dal Passo, in pochi minuti, si risale alla seggiovia per il rientro a valle.
Dei tre baiti visitati, i più utili sono senza dubbio quello delle Prese e dei Sügadoi. Il primo come eventuale punto di partenza per una traversata in Valsorda; il secondo in caso di maltempo. Il Bait del Pian della Paura merita una visita più che altro per i dintorni ma non certo per il pernottamento, anche per la sua vicinanza alla funivia di Gardonè.

Relazione.
Parto da Trento alle 7 del mattino con il termometro, fuori dalla finestra della cucina, che segna già 30°; figurarsi a mezzogiorno. È l’ultima settimana di luglio e siamo in piena ondata di caldo africano, non vedo l’ora di alzarmi di quota.
Arrivo alla cabinovia del Latemàr, subito dopo Predazzo, poco dopo le 8,30; metto lo zaino in spalla e via. La cabinovia mi lascia a Gardonè, bel posto turistico e “valorizzato” a go-go. Uscito dall’impianto, scendo lungo l’ampia sterrata che sale dal fondovalle; arrivato a un tornante destrorso, un cartello indica il sentiero per Vardàbe. Sentiero comodo, con qualche su e giù, che mi conduce al piccolo villaggio alpino. Scendo a visitare le varie costruzioni grandi e piccole; nel frattempo arriva un’auto a bordo un signore e una giovane che, suscitando tutta la mia invidia, entrano in uno dei bellissimi fabbricati.
Lascio Vardàbe e il suo magnifico panorama sul Lagorài ai fortunati proprietari di casa e salgo fino a ritrovare un largo sentiero che mi porta a entrare nel bosco. Non faccio in tempo a pensare come all’ombra del bosco si sia meglio che il sentiero si trasforma in una ripida rampa, che sale impietosa mostrando alcuni residui dell’antica pavimentazione di una mulattiera.
Finalmente, raggiunta q.1750, trovo il bivio per il Baito delle Prese che raggiungo in breve. Il posto è bello e arioso una strada sterrata sale dalla Valsorda, permettendo il collegamento sia con la Baita Praconè sia con il Paese di Forno.
Il Baito delle Prese ottimo ricovero è molto spartano all’interno e ospita solo una branda a doghe che fa già venire il mal di schiena a strisce solo a guardarla.
Torno sui miei passi e riprendo il sentiero (n° 50, segnavia su un albero) ancora in salita che, fortunatamente per il sottoscritto, riduce un po’ la sua pendenza. Continuo a salire con parecchie soste tutte le volte che gli alberi ora diradati mi offrono sollievo dal caldo. Nonostante la quota c’è un caldo mica da poco, infatti, non sono sudato bensì zuppo di sudore; per fortuna ogni tanto arriva un po’ d’aria a darmi sollievo, una boccata d’ossigeno per questo ansimante vecchietto!
Salendo mi fermo spesso a scattare foto perché ora, uscito dalla vegetazione d’alto fusto, i panorami si sono ampliati divenendo sempre più godibili.
Finalmente arrivo a un recinto con un tornello, mi viene da ridere perché mi ricorda un ex ministro (un tipo che invidiava molto Fanfani per la sua altezza), che aveva fatto dei tornelli un suo pony da battaglia!
Proseguo il cammino sovrastato dalle pareti rocciose dei Mus, la salita intanto termina e poco dopo avvisto il minuscolo Bait de Sügadoi. Appena arrivo al Baito, con grande soddisfazione tolgo lo zaino e mi accascio su una panca. All’esterno del Baito ci sono un piccolo tavolo e la panca dei miei desideri. Posso riposare, bere una sorsata d’acqua, asciugarmi il sudore, poi buttarmi un po’ d’acqua in testa. Visto l’interno del Baito che è dotato di un tavolo con panca e un'altra specie di panca che vorrebbe darsi arie da branda. Al soffitto del piccolo baito ci sono appesi due materassi e in un angolo una stufa a misura di baito cioè minuscola anch’essa. Mi sento come Gulliver in una casetta di nani, anche se sono più largo che alto.
Tirando un respiro di sollievo perché non sono costretto a usufruire del Baito per la notte, ottimo ricovero comunque in caso di maltempo, riprendo il cammino sul filo dei 2200 m tra pascoli sassosi e mucche. Seguendo sempre il sent. 50, che in questo tratto tende a confondersi un po’ sul terreno, inizio a scendere e arrivo a un bivio, sono ormai sulla verticale del visibile Baito del Pian della Paura, dove un cartello indica in un’ora il tempo per scendere a Gardonè e in 45 minuti quello per arrivare al Passo Feudo anch’esso visibile.
Sono curioso di visitare la zona sottostante, quindi inizio la ripida discesa passando tra una piccola mandria di vacche che mi osservano con i loro grandi occhi; chissà cosa penseranno di questo bipede sudato e incespicante, mah meglio non indagare.
Finalmente arrivo al Baito del Pian della Paura. A guardarlo da vicino non ispira paura ma un certo timore sì, visto che sembra un po’ sbilenco e con seri problemi di equilibrio. Comunque mi fermo a riposare e butto un’occhiata all’interno. Scopro un rozzo tavolo in un angolo, poi una stufa carica di anni e di ruggine, infine guardo con interesse un tavolato coperto da quello che, ai tempi dell’Impero Austro-Ungarico doveva essere fieno fresco e profumato, mentre ora sembra più un basso strato di polvere che altro. Sarà la stanchezza ma mi sembra che quella specie di paglia viva di moto proprio; forse legioni di minuscoli insetti stanno aspettando speranzosi malcapitati. Non indago oltre e mi siedo all’esterno e all’ombra. Di fronte a me c’è un pascolo disseminato di grossi cumuli a cono. Sono il risultato di bonifica di quello che è diventato ora un pascolo erboso e non più sassoso, ma anche i testimoni di una fatica mica da poco!
Intanto il tempo passa e mi tocca ripartire, infatti, la cabinovia di Gardonè chiude alle 17,45 e sarà meglio che mi dia una mossa. Scendo a raggiungere un largo sentiero che passa accanto ai cumuli sassosi, poi attraversa un pascolo diventa una sterrata e precipita, senza mezzi termini, verso il basso con una pendenza che definirla ripida è un gradevole eufemismo. Piantando i bastoncini con foga, qui è roba da ramponi, e costringendo i miei menischi a lanciare stridenti urla di dolore arrivo velocemente, per via della ripidità mica per mia volontà, nei pressi di una grande prato che ospita un paio di belle baite. Qui mi fermo un attimo ancora intimamente scosso per la discesa, riprendo fiato poi riparto e in breve raggiungo la strada che sale al Passo Feudo e la corrispondente pista da sci.
Ora ci sono due possibilità: o seguire la sassosa strada, o la pista da sci dal fondo erboso ma anch’esso duro come i sassi. Bella scelta: o la padella o la brace. Decido di seguire la pista da sci solo perché sul lato sinistro ci sono zone d’ombra. Arrivare fino a Gardonè si rivela essere una vera e propria tortura per le mie gambe, ormai ridotte a due appendici quasi insensibili a parte le ginocchia che fanno un male cane.
Riesco ad arrivare alla cabinovia con estrema cautela per evitare di stramazzare a terra, i turisti che gironzolano nei pressi mi guardano quasi con sorpresa; mi sa che ho una faccia stravolta che non ti dico. Nonostante tutto riesco a montare nella cabinovia e scendere a valle; sono sudato, stanco morto e stravolto. Quando raggiungo l’auto, mi libero dello zaino, cavo gli scarponi con un gemito di sollievo, prendo un asciugamano e una maglietta pulita e vado ai bagli. Apro un rubinetto, pregustando la sensazione del fresco getto e invece … Viene fuori ACQUA CALDA!
Ma che è sto’ scherzo, siamo in luglio, ci sono 30° a 2000 metri e passa, e qui il rubinetto butta acqua calda; mi viene da piangere!
Mi sciacquo velocemente, poi monto in auto e vado a trovare una coppia di amici al Miola di Predazzo che, forse commossi dalle mie condizioni, si offrono di ospitarmi per la notte nel loro grande divano letto nuovo di pacca: non ringrazierò mai abbastanza.

Italia-Germania 4-3 (vista dal Catinaccio)

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Fu uno spettacolo al cardiopalma la partita dei mondiali di Città del Messico che si disputò il 17 giugno 1970: si concluse con la vittoria dell'Italia sul filo di lana per 4 a 3, dopo i tempi supplementari.
La conca del Gardeccia in una cartolina d'epoca: "In questo gruppo dolomitico ci
sono più rifugi che pulci su di un cane randagio; non solo, spesso sono costruiti a
ciuffi come al Ciampedìe, o nella conca di Gardéccia"
scriveva l'autore.
Gigi, che è tutto tranne che appassionato di calcio, ne fu solo casualmente sfiorato, ma se la ricorda ancora. Così ce l'ha raccontata nella sua antologia di storie montagnine "Racconti minimi":
"Eccomi a Vigo di Fassa, appena sceso dalla corriera. Salutato il simpatico autista, con il quale ho conversato piacevolmente, raggiungo la funivia. Sbarcato al Ciampedìe mi allontano il più velocemente possibile; il posto è molto bello ma invaso da orde di turisti, molti con radiolina incorporata. Par quasi d’essere a Milano Marittima!
Un fotogramma della partita in questione (nel 1970 la TV era in bianco e nero).
Racconto breve tratto da: Luigi Faggiani, "Racconti minimi", Euredit, Trento 2003.
Lascio la zona scendendo lungo
una specie d'autostrada sterrata, una pista da sci. Giunto ad un bivio prendo a sinistra passando in uno squarcio della montagna, in questo modo stuprata per permettere all’homo turisticus i suoi bambineschi giochi invernali. Proseguo ancora per un tratto sulla ferita causata dalla pista da sci, poi arrivo, finalmente, dove comincia il sentiero. Costeggio una parete di roccia friabile sotto le Pale Rabbiose ammirando la caratteristica Torre Finestra (in lingua Ladina: Crep de Sènt’Uiana).
Attraverso dei pascoli, punteggiati qua e là da placide vacche, attacco la salita ed arrivo davanti al rifugio Roda di Vaèl, posto in posizione veramente stupenda, con una bellissima vista sul gruppo della Marmolada.
Un paio d’anni fa un’altra costruzione, il rifugio Pederiva, è stato costruito a poche decine di metri. In questo gruppo dolomitico ci sono più rifugi che pulci su di un cane randagio; non solo, spesso sono costruiti a ciuffi come al Ciampedìe, o nella conca di Gardéccia. Per un onesto bevitore di birra come il sottoscritto tutto ciò è molto comodo, ma mi pare anche eccessivo.
Proseguo il cammino con il panoramico sentiero del Masarè, passo sopra al rifugio Paolina, costeggio la Roda di Vaèl con la sua fantastica parete verticale, infine arrivo al rifugio Fronza.
La camera che mi ospita è molto piccola, completamente rivestita di legno ormai scurito dal tempo, con una finestrella aperta verso il Latemàr. È bellissima, mi sento al sicuro come in un bozzolo. Ci vorrebbe un bel temporale con lampi e tuoni questa notte; stare al caldo sotto le coperte, mentre fuori c’è il finimondo è una cosa fantastica, almeno per me.
Sistemato le mie cose, scendo da basso aspettando l’ora di cena. Intorno a me una ventina di biondi teutonici ride e scherza; a parte il gestore ed i suoi tre collaboratori sono l’unico italiano. Per mia sfortuna non capisco quasi niente di tedesco, perciò non mi rimane che estraniarmi nella contemplazione delle ultime luci sul Latemàr, uno spettacolo bello e romantico. Finita la cena sorseggio una grappa leggendo, senza troppo interesse, un giornale locale. Non sono per nulla stanco e l’idea di andare a dormire con le galline non mi attira proprio. Intanto noto segni d’agitazione tra i ragazzi tedeschi ed il personale del rifugio senza riuscire a comprenderne il motivo. La cosa sulle prime m’incuriosisce, ma poi riprendo la mia solitaria lettura senza badare agli altri.
Dopo non molto arriva il gestore del rifugio e mi chiede se anch’io voglio vedere la partita. «Partita, quale partita?» domando sorpreso. Il gestore mi guarda come se fossi un marziano e, come se non credesse alle sue orecchie, sbotta: «Ma come quale partita, ma Italia-Germania, quale sennò». Ricordo allora che, in Messico, sono in corso non so bene quali campionati ai quali partecipa anche la nazionale italiana. La cosa sinceramente mi è del tutto indifferente, ma giacché sembra essere cosa di capitale importanza e non ho sonno accetto l’invito.
Siamo tutti assiepati in cucina, davanti ad un piccolo televisore in bianco e nero. Seduti in prima fila il gestore con i suoi collaboratori, quindi tutti i vocianti tedeschi, buon ultimo il sottoscritto che si ritaglia un angolo, sedendo sopra ad un tremolante tavolino, accanto alla porta.
La partita ha inizio e lo spettacolo deve essere appassionante, almeno a giudicare da come si comportano tutti quanti. L’unico tranquillo, ed ovviamente fuori posto, sono io che di calcio non capisco un accidente. Naturalmente nessuno s'interessa di me, quindi posso osservare il comportamento degli astanti con tutto comodo. È veramente divertente devo dire: il gestore, passandosi in continuazione una mano nei capelli, si dimena sulla sedia come sui carboni ardenti, un ragazzo sposta il didietro mimando le mosse dei calciatori, una ragazza saltella impaziente e lo spettacolo dei suoi seni sodi, appena velati da una leggera maglietta di cotone, magnetizzano il mio sguardo per un bel po’. Saprei ben io come passare in modo più piacevole la serata, altro che partita! L’appassionante spettacolo, quello delle tette intendo, s’interrompe quando la bella nordica s’incunea tra i suoi amici per meglio vedere la TV. Con un sospiro riprendo le mie tranquille osservazioni.
Improvvisamente i tedeschi sembrano letteralmente saltare in aria urlando come pazzi, mentre il gestore, alzando mani ed occhi al cielo, sbraita qualcosa che non sento bene ma indovino essere una frase non molto gentile, anzi! È tutto proprio molto divertente, secondo cosa succede alla TV i corpi si protendono, si contorcono in pose quasi plastiche, intanto un’intera enciclopedia di gesti osceni passa sotto i miei occhi attenti. Anche in parolacce, democraticamente alternate in italiano e tedesco, si abbonda senza alcuna remora. Il bello è che sono proprio le ragazze ad uscirsene con battute colorite, tanto per usare un eufemismo. I ragazzi in confronto hanno ancora da imparare parecchio; dovrebbero lavorare con più fantasia.
Passa il tempo e comincio ad annoiarmi, allungo il collo e seguo la partita. Devo dire che pur non capendo nulla del gioco, le alterne fortune delle due squadre cominciano ad incuriosirmi, ma poi sono nuovamente distratto dal riapparire della bella valchiria dai seni ballerini.
Improvvisamente cala il silenzio, nell’aria s’avverte una tensione a dir poco spasmodica, tutti gli sguardi sono magneticamente fissi sul piccolo schermo, il radiocronista sta tirando fuori l’ultimo filo di voce; mi sa che se continua così gli prende un colpo secco! Infine la prima fila si lancia verso l’alto e un paio di seggiole cadono a terra; il personale del rifugio sembra impazzito, mentre il gestore continua a ripetere ossessivamente: « 4 a 3 – 4 a 3 – 4 a 3». Al contrario i tedeschi borbottano sottovoce o sono assolutamente zitti, molti hanno espressioni cupe, qualcuno truce. Faccio un rapido conto accorgendomi che loro, i tedeschi, sono quattro volte più di noi; speriamo che siano veri sportivi. In ogni caso mi accosto alla porta; così se la discussione si facesse troppo animata avrò modo di attenermi al vecchio detto: «Quando infuria la battaglia, il più dritto se la squaglia!». Naturalmente non succede nulla e i ragazzi lasciano la cucina mugugnando mentre gli altri, i “vincitori”, almeno credo si sentano così, rimettono in ordine il locale con allegria. Mah! Il mondo è bello perché è vario.
Il giorno dopo, di prima mattina, mi avvio lestamente salendo al rifugio Santner dove mi fermo a bere un caffè, chissà perché tutti parlano della partita di ieri. Inizio la discesa ammirando torri e pareti ed arrivo al rifugio Vaiolét. Il tempo di scattare qualche foto, un po’ di riposo e poi via di nuovo: Passo Principe – Passo Antermóia – rifugio Antermóia. Qui mi fermo a mangiare un panino e bere una birra; uscendo per rimettermi in marcia colgo qualche frase del dialogo di un paio di clienti: « un 4 a 3 fantastico ».
Alla testata della piccola Val di Dona, una vera perla, incontro dei pastori con i quali scambio due chiacchiere, poi raggiungo un vicino crinale da dove ammiro estasiato la grande Val Durón, dominata dal gruppo del Sassolungo. Calo velocemente di quota e, giunto a fondovalle, continuo fino al rifugio Micheluzzi. Le mie gambe ormai si rifiutano di continuare per questo decido di fermarmi per la notte, dopotutto ho impiegato dieci ore per arrivare qua. La giornata è stata splendida ed intensa, ho visitato posti nuovi però adesso sono stanco ed ho fame. Durante la cena ascolto le chiacchiere provenienti dalla cucina: « 4 a 3 ». Mamma mia! Parlano ancora della partita, sta diventando un incubo.
La mattina seguente mi alzo con comodo, faccio colazione e mi rimetto in cammino scendendo con calma a Campitello di Fassa. Arrivo giusto in tempo per contemplare la corriera allontanarsi, ormai irraggiungibile. Bel colpo! Adesso non posso far altro che provare con l’autostop o attendere il torpedone successivo. La prima ipotesi l'elimino subito, mai avuto fortuna con l’autostop. La corriera successiva passa solo dopo molto tempo ed allora entro in un bar: tutti parlano della partita.
Esco subito e mi avvio a piedi raggiungendo la fermata dopo. Così di fermata in fermata, arrivo nuovamente a Vigo di Fassa dove prendo la corriera, ovviamente anche qui si discute della partita!
Finalmente eccomi a casa, sono solo. Splendida situazione che, poco alla volta, fa sparire dalla mia testa quell’ossessivo: «4 a 3 – 4 a 3 – 4 a 3»".

Tra i baiti del Monte Agnello, con salita al Cornon (Latemar)

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Giro tecnicamente elementare ma piuttosto lungo, che transita dal Baito Armentagiola e dal Baito di Val Sossoi e sale anche al monte Cornòn, bel punto panoramico.
Il Baito di Armentagiola (m 2.130) è uno dei due da cui si transita e in cui è pos-
sibile fare tappa.
Vedi le altre foto in Google Foto.
L'escursione si svolge interamente in quota, in quanto ci si avvale  della seggiovia del Monte Agnello, passa da due vecchi e interessanti baiti di montagna, sopravvissuti al dilagare del turismo di massa, e sale al modesto (ma panoramico) monte Cornon.
I dati e la descrizione del percorso sono di Gigi, che ci è stato nell'estate 2019, e che ringrazio (i suoi suggerimenti si rivelano sempre buoni sul terreno, mentre sulle cartine paiono banali).
Gruppo:Latemàr
Sottogruppo: M. Agnello
Sentieri: senza numero e Sat n 509 – 529 – 513 – 518
Difficoltà: E

Dislivello: + 492 m
Tempi.
La cartina dell'escursione in scala 1:25000. Le tre mete del giro sono evidenziate col pennarello arancio.
Seggiovia M. Agnello–Valico la Porta: h 0,20
Valico la Porta–Valico e Baito la Bassa: h 0,20
Valico la Bassa–Baito Armentagiola: h 0,30
Baito Armentagiola–Baito Val Sossoi: h 0,30
Baito Val Sossoi–Bivio Sent. 513/ex cava onice: h 0,25
Bivio Sent. 513/ex cava onice–Ex cava onice: h 0,20
Ex cava onice–Bivio sent. 513/ex cava onice: h 0,15
Bivio Sent. 513/ex cava onice – Baito Armentagiola: h 0,10
Baito Armentagiola-Valico Armentagiola: h 0,10
Valico Armentagiola–Cornón: h 0,15
Cornón–Baito Armentagiola: h 0,15
Baito Armentagiola–Valico e Baito la Bassa: h 0 35
Valico e Baito la Bassa–Seggiovia M. Agnello: h 0 45
Tempo totale: h 4,50

Quote.
Seggiovia M. Agnello: m 2180
Valico La Porta: m 2155
I Censi: m 2215
Valico e Baito La Bassa: m 2160
Baito Armentagiola: m 2130
Baito Val Sossoi: m 1880
Bivio ex cava onice: m 2125 circa
Ex cava onice: m 2145
Valico Armentagiola: m 2152
Cornón o Cornacci: m 2189

Note.
Il dislivello aumenta a circa 550 m tenendo conto di alcune contropendenze presenti nel giro.
I tempi sono calcolati, come ovvio, al netto delle soste. Sicuramente è bene preventivare almeno sette ore considerando che la seggiovia del M. Agnello apre alle 8,30 e chiude alle 17,30. Occorre tener presente di essere al valico della Bassa almeno entro le 16,30 per essere sicuri di prendere la seggiovia, dopo vorrebbe dire scendere a Pampeago sorbendosi altri 400 m di discesa su sterrata in parte monotona.
Sotto la seggiovia è stato realizzato quello che, personalmente, ritengo un ottimo esempio di “valorizzazione” turistica; il cosiddetto “Rif. M. Agnello”! Per me si può paragonarlo a tutto meno che a un Rifugio (parola ormai più che abusata), infatti, lo definirei un bar-ristorante con discoteca incorporata. Nella stagione invernale poi è cosa esilarante: musica sparata a tutto volume, un'orda di sciatori che, ovvio, parla o meglio urla cose misteriose che nessuno può capire, infatti, hanno tutti il casco da sci in testa. Il mistero è: perché danno fiato alla bocca se, tra il casco, la musica altissima e cacofonie varie non capiscono di sicuro un tubo ? Misteri sciistici.

Relazione.
Salgo all’Alpe di Pampeago e utilizzo la seggiovia del M. Agnello che mi porta in breve a 2180 m.
Smonto e mi allontano velocemente superando la vicina cresta del M. Agnello.
Pochi metri e sono in un altro mondo. Scendo con un buon sentiero (segnalato anche con paletti di legno), poi salgo con comodo ai 2215 m dei Censi un panettone bonario che scende al valico della Bassa e al baito omonimo, Durante il tragitto quello che colpisce sono le pendici della Pala di Santa devastate dalla tempesta del 2018. Dal valico seguo il sent. 523 che passa sotto al Dos dei Branchi perdendo un po’ di quota per poi risalire comodamente, uscire dal bosco e raggiungere il vicino Baito Armentagiola.
👉La prima cosa che noto è la fontana dell’acqua completamente asciutta, andiamo bene! Dentro noto subito che un tavolo è subentrato al tavolato inferiore degli anni passati, riducendo così il numero dei posti letto; come se non bastasse, sono spariti anche i materassini. Mica è finita qui, c’è una scaletto a pioli che in teoria dovrebbe servire per raggiungere il tavolato superiore per un eventuale pernottamento. In pratica, non avendo dei ganci che la rendono sicura, è una specie di trappola per chi prova a usarla, infatti, ci sono ampie possibilità di scivolamento.
👉Lascio l’Armentagiola e scendo in circa mezz’ora al Baito di Val Sossoi. Questo è costruito in mezzo al bosco su una specie di terrazza, mentre il versante intorno cade assai ripido verso la Val del Cornon.
Al contrario dell’Armentagiola qui una bella fontana getta un’acqua fresca che è un vero invito a nozze, infatti, l’ondata di caldo africano che sta torturando le basse valli (a Trento in questi giorni si segnala 40°, roba da sincope) si fa sentire anche qui se pur in misura minore. Bevo avidamente, a torso nudo mi lavo, poi metto in ammollo maglietta e maglia strizzandole più volte, infine “stendo” il bucato sul tavolo fuori del baito al sole e all’aria. Io mi ritiro dentro il baito, al fresco, e attendo che sole e aria svolgano il loro compito.
Faccio scorta d’acqua e torno, con molta calma, al Baito Armentagiola salendo e sostando spesso quando trovo un bel posto ombroso e arieggiato.
Giunto poco sotto l’Armentagiola c’è un segnavia che desta la mia curiosità e recita “ex cava onice 15 minuti”. Ma va! Una cava di pietra dura da queste parti, occorre indagare. A una vicina curva del sentiero nascondo lo zaino sotto un albero caduto, poi più leggero mi avvio. Dopo più di 15 minuti (ostia) arrivo a 2145 metri e trovo un bel cartello che gentilmente mi avverta che sono nell’ex cava di onice. Segni particolari di ciò neanche uno, in compenso un altro cartello, sempre gentilmente, mi avverte che continuando il cammino si arriva al visibile Cornón e da lì all’Armentagiola. Bene bravi, bel colpo, ma mettere la prosecuzione del sentiero e la meta raggiunta nel segnavia giù al bivio costava un notevole capitale finanziario e un’immane fatica?
Tiro giù qualche santo, tanto sono così numerosi nel calendario che, uno più uno meno, chi vuoi che si accorga del fattaccio. Torno indietro, riprendo lo zaino e salgo al Baito Armentagiola.
👉Riprendo il fiato, poi decido di salire al Cornón o Cornacci sperando di riuscire a fare qualche foto decente, ma purtroppo caldo e afa non danno tregua e la Val di Fiemme è sotto la foschia. Faccio qualche scatto poi rientro sotto una leggera pioggerellina. Ringrazio Giove Pluvio del delizioso regalo serale con sentiti complimenti, si fa per dire quindi mi preparo la cena. Fatto fuori un maxi panino imbottito, generosamente, di delicata, rosea, profumata mortadella, “bondola” per gli amici, passo ad organizzarmi l’alcova. Assodato che salire e scendere dal soppalco è cosa adatta a giovani, atletici ragazzi, in vena di sfidare la sorte con l’infida scaletta; non posso che dare due sberle al mio IO ricordandogli i miei settant’anni, il mio corpo corpulento e di certo dimentico della scioltezza e dell’agilità giovanile, quindi sposto a fatica il pesante tavolo, unisco due larghe panche e stendo il sacco a pelo come imbottitura, serve a poco ma meglio di niente. Giaciglio duro ma sempre più sicuro del soppalco, penso tra me e me poi, educatamente mi auguro buonanotte, e mi getto tra le braccia di Morfeo.
Notte di ben poco riposo, oltre alle dure panche che ci mettono del loro, io non sono da meno facendomi venire dei crampi alle gambe che mi obbligano a camminare avanti e indietro cercando ogni tanto di massaggiarmi il muscolo indurito. Così alle prime luci esulto e mi alzo; operazione in realtà ben difficoltosa che si conclude solo dopo aver riordinato tutte le ossa del mio corpo, giustamente offese dal trattamento ricevuto. 
Esco e mi siedo sulla panca accanto all’ingresso del Baito, contemporaneamente Messer Sole inizia a far capolino da dietro il M. Agnello. Colori soffusi e caldi, aria fresca che mi accarezza sono quei momenti nella vita, sempre troppo pochi, in cui mi sento in pace con tutto l’universo, persino con gli abitanti di questo povero pianeta da essi torturato e avvelenato.
Mi scuoto solo dopo una buona mezz’ora rientro in “casa” e mi metto al lavoro. Prima di tutto faccio lo zaino, poi passo a una robusta spazzata del pavimento, infine rimetto al loro posto tavolo e panche.
Mi godo ancora il fresco del mattino, non mi corre dietro nessuno, e percorro con lo sguardo ogni curva del paesaggio, infine a malavoglia riprendo il cammino e lentamente rientro al valico della Bassa.
Qui mi fermo un bel po’ di tempo, immobile e seduto su un sasso, finchè un nutrito gruppo di marmotte prende coraggio ed esce dalla tana. Così il tempo passa velocemente mentre sono impegnato a fotografare i simpaticissimi roditori. La curiosità è più forte della paura e poi, visto che io non mi muovo di un millimetro, mamma marmotta arriva a lasciar uscire dalla tana i suoi piccoli. Ormai il mio fondo schiena grida vendetta, per essere costretto a subire il mio dolce peso su una cos’ piccola area che devo alzarmi. Lo faccio lentamente per non spaventare le marmotte ma anche perché ormai sono dolorosamente anchilosato, naturalmente gli animaletti, fedeli alla saggia norma: ”Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, sono spariti in un lampo.
👉Raggiungo la seggiovia e quindi torno a valle. In Val di Stava mi fermo al Centro di Documentazione e lo visito, dopo un buon caffè bevuto al bar di fianco. Era il 19 luglio 1985: Ricordo bene la catastrofe dei bacini di Prestavèl, la fangosa valanga che in un batter d’occhio distrusse la Val di Stava, fino a terminare la sua mortale corsa nell’Avisio dopo aver falciato ben 268 persone. Una strage annunciata, come il Vajont, un disastro evitabile, un vero e proprio omicidio plurimo e aggravato dal fatto che si sapeva benissimo il pericolo che la Valle stava correndo, proprio come il Vajont. Seguirono solite celebrazioni, inchieste, sopraluoghi, processi, alla fine le condanne. L’ultimo schiaffo, nessuno degli imputati condannati ha mai fatto un giorno di carcere, questa qualcuno ha il coraggio di chiamarla Giustizia. Questo è il mondo del capitale, dove conta solo il Dio Denaro e la vita umana non ha valore alcuno.
👉Scendo a Tesero e vado al vicino cimitero, dove un monumento ricorda gli assassinati. L’artista è riuscito a rendere fin troppo l’angoscia dell’accaduto: quella grande marea scura che cade rovinosa, travolgendo quelle povere figure umane terrorizzate e immobili in un inutile e ultimo gesto di difesa mi fanno accapponare la pelle. Mi ritiro in silenzio mentre la ghiaia scricchiola sotto i miei passi, mi sento un po’ in colpa, come se potessi disturbare le vittime di quella tragedia.
👉Torno a Predazzo e vado a fare rifornimento di proteine comprando un mezzo pollo arrosto per cena, quindi monto in auto e salgo in Valmaggiore. Questa notte la passerò al Baito di Cece poi dovrò, controvoglia, tornare a Trento.

Frittata primaverile di uova e di ortiche

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Sia i germogli che le foglie si prestano a diversi piatti sfiziosi come frittelle, sformati, risotti e... frittate. E non dimenticare a casa i guanti.
frittata ortiche
La frittata di ortiche, un tempo certo più conosciuta e praticata di oggi.
Comunque, é meglio raccoglierli prima della fioritura, quando sono ancora teneri.
Le foglie vanno separate dal gambo fibroso (che va gettato) e sbollentate per qualche minuto perchè la cottura riesce ad addomesticare i peli urticanti.
E' un metodo che funziona sempre, perfino con l'ortica tardiva, quella estiva, che ha le foglie grandi e gli steli più legnosi.
👉Una volta strizzate, basta metterle in una padella unta con un filo d'olio d'oliva e spaccarci sopra le uova. Bisogna rompere i tuorli e rimescolare grossolanamente e in più, mentre la cottura procede, spolverare con pepe nero.
frittata alle ortiche
Il "processo di produzione" spiegato per immagini.

I più svegli si stanno già attrezzando... giocano d'anticipo sulle burocrazie del Belpaese

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E' il caso di Malga "Monte Foraoro", nelle primissime prealpi venete, ed è solo un esempio (mentre altri disquisiscono in punta di diritto...).
La "Malga Foraoro" (altipiano di Asiago) ci manda qualche segnale di concretezza positiva. Ne abbiamo tanto bisogno per affacciarci al domani. (foto originale di Graziella Toffanin, che ringrazio)
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